Articolo: Novantanove barche – (Seconda puntata)
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Novantanove barche (seconda puntata)
Alcuni anni più tardi ne curai la versione corta: l’Alfamarine 35 che si dimostrò un po’ troppo ballerina, avendo lo spigolo, caratteristico delle carene Delta, molto teso appena sopra il livello di galleggiamento, che ne faceva uno scafo molto veloce ma estremamente instabile da fermo. Feci montare un serbatoio strutturale, tra i due motori in corrispondenza del CC (centro di carena).
Questo serbatoio, della capacità di circa 800 litri, era in comunicazione con lo specchio di poppa mediante un tubo del diametro di circa 30 cm. e aveva verso l’alto un tubo di sfiato di ugual diametro. A barca ferma, con il serbatoio pieno di acqua marina, la stabilità era perfetta e non appena si entrava in planata il serbatoio si scaricava totalmente. Ovviamente, quando si rallentava, il serbatoio, con un lungo e sonoro sospiro, si riempiva nuovamente… insomma, il marchingegno funzionava!
Alfamarine CRONOS 83
Nel 1984 cominciai a progettare il Cronos 83. Già in quegli anni ero in perenne contrasto e polemica con i “designer” che, a mio avviso, consideravano la barca un contenitore con un coperchio sul quale scatenare la loro fantasia creativa, con bellissimi interni, sovrastrutture che poco avevano a che fare con l’omogeneità di quelle sottostanti, problemi idrodinamici, problemi di propulsione, per non parlare di problemi di peso.
Avevo in mente qualcosa che assomigliasse alla fusoliera di un aeroplano e nella quale le ordinate strutturali continuassero nei bagli di coperta delle strutture anulari, inscritte in un poliedro molto vicino a un cerchio; il forte diedro, inizialmente di 25° e il fondo, le fiancate con sviluppi di superfici convesse, caratteristiche delle “carene tipo Delta”, mi avrebbero aiutato nella definizione della sezione maestra.
Longitudinalmente, il profilo della coperta era una linea molto tesa che arrivava sino a poppa e dalla quale sporgeva solo l’abitacolo della timoneria. Una linea quasi speculare a quella della carena. A prescindere dalla bassa resistenza aerodinamica che a 35 Kn è significativa, il risparmio di peso, oltre alla solidità della forma, era molto importante.
I due battelli di servizio, un Boston Whaler e un gommone, erano in alveoli chiusi e la loro messa a mare avveniva rispettivamente con una gruetta retrattile e uno scivolo allo specchio di poppa. L’albero di sostegno dell’elettronica era in posizione asimmetrica e incorporava una delle prese d’aria dei motori. Un’architettura molto pulita, nella quale ogni particolare e ogni linea avevano una loro logica giustificazione, una “progettazione pragmatica”, quella che da sempre, come risultato, ha una componente estetica assoluta.
La carena del Cronos fu provata nella vasca navale dell’ISEAN di Roma. Il Cronos 83, varato nel 1985, fu premiato a Viareggio con la “chiglia d’oro”: evento da me particolarmente gradito. La motorizzazione prevista era una coppia di MTU 8V da 1305 CV, ma la geometria di carena e il dislocamento resero accettabile il limite inferiore di 35 CV/Tonn P.C., per una gamma che prevedeva motorizzazioni sino a 5000 CV.
Lo studio di un Supercronos 83, con tre MTU e gruppi poppieri Arneson, rimase allo studio di bellissimo modello. Il Cronos sino al 1987 fu prodotto in sei esemplari. John Bannenbeg, che faceva parte della giuria del premio a Viareggio, mi inviò in quell’occasione, una lettera di complimenti che gradii molto.
Dalla carena del Cronos 83 fu derivato, e costruito in un solo esemplare, l’Alfa 90, con la stessa motorizzazione, ma con sovrastrutture un po’ più tradizionali.
Partendo dalle buone caratteristiche idrodinamiche che avevo conseguito con il Cronos, sviluppai un Alfa 60, con due Man da 1000 CV cadauno e gruppi di propulsione Arneson per una velocità di 50 Kn, imbarcazione della quale furono prodotti 10 esemplari in versione “open”.
Per un cliente, che voleva raggiungere e sorpassare i 60 Kn, modificai la carena del 60’, che aveva un diedro di 24°, allungandola di circa un metro per avere maggiori volumi di galleggiamento dovuti al peso del terzo motore, e inserii sul fondo un flesso positivo (rocker) di 5 metri, che si estendeva sino a poppa, per ridurre la supeficie bagnata alla velocità prevista di 60 nodi. Inoltre, ridisegnai i pattini, dando loro un andamento ortogonale ai piani di diedro, in modo che nelle virate, quando la barca si corica su un fianco, non si verificassero fenomeni di sovrasterzo o sottosterzo.
I tre motori Man da 1000 CV erano disposti in modo che il centrale lavorasse in V Drive mentre tutti e tre scaricavano la loro potenza mediante trasmissioni Arneson. Le prove confermarono la validità delle modifiche di carena e furono raggiunti 61,5 Kn in dislocamento leggero, con un carico dinamico di fondo al rocker di 1700 Kg/mq. L’Alfa 65 volava sull’acqua sostenuto solamente dalla parte terminale della carena. Uso il termine volare per il paragone che si può fare con gli aerei, ove il carico alare è il fattore determinante del volo. Uno Starfighter F 104, del peso di 13 tonn, decolla e vola con un carico alare di 722 Kg/mq.
Sono carichi micidiali che, con accelerazioni e decelerazioni e un po’ di mare, raggiungono valori di G elevatissimi, fortunatamente molto brevi, ma capaci di far levitare un’ancora di 70 Kg e un istante dopo farla piombare in coperta sfondandola. Queste forze pongono problemi strutturali dei quali spesso non si tiene conto ma che, con l’aumento della velocità, è necessario analizzare preventivamente. Infatti, tutto ciò che è appoggiato deve essere solidamente fissato!
In un’analoga situazione progettuale, molti anni fa, a un cliente più sensibile all’eleganza che alla funzionalità, avevo dovuto consigliare di far bloccare il coperchio dei wc con bellissime cinghie in cuoio grasso dotate di fibbie in ottone lucido, molto simili a quelle che chiudevano il cofano motore delle mitiche Bugatti. Fu una soluzione molto chic e con ovvia analogia funzionale, in quanto prima dell’uso era comunque necessario slacciare un’altra cintura.
Nella vecchia darsena di Fiumicino c’è ancora un altrettanto vecchio cantiere che in quegli anni sapeva costruire barche come i vecchi maestri d’ascia. Era il Cantiere di Gino D’Este, un abile costruttore che proveniva dagli squeri veneziani. A lui mi affidai quando un amico comprò, nel 1970, una vecchia corallina costruita nei Cantieri di Torre del Greco, che aveva già subito infelici modifiche, nel tentativo di trasformarla in yacht a vela.
Con questa barca di 20 mt, della quale non esisteva più un piano di costruzione, feci un paio di uscite in mare e mi resi conto che bisognava rifare il piano velico, oltre a modificarne la superficie di deriva, il cui centro di pressione era molto a poppavia. Infatti, navigando di bolina, la vecchia ruota del timone rubava più di mezza circonferenza. Fu come ricostruire la nave di Giasone… Tirata la barca a secco, cominciammo a sostituire buona parte del fasciame e della chiglia. Rifacemmo la tuga e il ponte, l’alberatura fu sostituita con un armamento a goletta wishbone per riportare il centro velico entro limiti ragionevoli…
Rinacque così il Saudade che riportai felicemente in mare.
Intanto, a Fiumicino, presso la foce del Tevere, era nato il Cantiere Delta. In realtà, questo cantiere era nato nell’entroterra di Anzio, quando Renato Levi, dopo aver “divorziato” dalla Navaltecnica, iniziò a progettare una serie di “fast commuter” per il Conte Agusta, il dottor Olivetti e l’avvocato Gianni Agnelli. Il Cantiere Delta era alle Falasche in un casolare dove, per far uscire la barca dell’Avvocato Agnelli, un G.50, fu necessario abbattere un muro. Le maestranze erano composte soltanto da Guido Tujach e da un giovane aiutante “scalda colla”… ma da quel casolare uscirono barche che hanno scritto la storia della motonautica mondiale.
Il Cantiere Delta si trasferì alla foce del Tevere quando fu impostato il Corsara per il Principe Ali Aga Khan, motorizzato con due CRM da 1359 CV, con intorno un po’ di scafo, molto poco! Dopo Corsara fu la volta dello sport fisherman Aquarius che andò in Sudafrica.
In accordo con Alfamarine, dopo il Bronte, progettammo a firme unite:
•il Trifoglio per il Principe Alberto di Liegi, l’attuale Re del Belgio, scafo con carena Delta in lamellare, di 18 mt con due motori GM da 850 CV; •il MIGS, uno sportfisherman di 15 metri •Quattro esemplari del veloce Delta 33 che a 3,5 Tonn con due Aifo da 220 CV tirava i suoi 36 Kn. Il Delta 33 aveva una carena con un diedro di 26°, eliche di superficie e trasmissione Step-Drive.
In quel periodo conobbi Ferruccio Lamborghini, che voleva realizzare una “Miura del mare” utilizzando due suoi motori. Fui suo ospite allo stabilimento (LAMBORGHINI)di S. Agata Bolognese per provare al banco i motori e con l’occasione, anche i celebri tortellini dei quali era altrettanto orgoglioso.
Di quell’incontro non mi rimane che un simpatico ricordo e una proposta a colori.
Ma il Delta mi diede la possibilità di costruire una barca sperimentale la cui geometria credo possa essere l’unica risposta ai problemi dell’alta velocità in mare, oltre alla formula catamarano. Negli anni Quaranta i racer da circuito utilizzavano questa geometria che in realtà, con due punti, non permette variazioni longitudinali del baricentro…
Peter Du Cane, il progettista della Vosper, aveva teorizzato una carena a tre punti, ovvero tre carene disposte a triangolo dritto o rovescio. Renato Levi aveva progettato il suo Arcidiavolo e io, dopo alcuni esperimenti con scafi a triciclo rovescio di piccole dimensioni costruiti in Italia e in Brasile, progettai e feci costruire al Delta il GPB (General Purpose Boat), che confermò le possibilità velocistiche di una carena sostenuta da un cuscino d’aria in effetto RAM, cioè captata dinamicamente tra i due scafi anteriori, oltre alle doti di stabilità intrinseca data dai tre scafi non soggetti a gravi sforzi torsionali come nel catamarano.
Il GPB era motorizzato con un piede poppiero Volvo a benzina da 243Kw e il suo dislocamento era di 2300 Kg a PC. Le sue dimensioni erano: lunghezza ft. 9,30 mt, larghezza massima 2,90 mt.
Durante le prove sistematiche fu rilevato un grafico nel quale in ascissa troviamo le RPM e in ordinata la velocità. Analizzandolo, la curva ha un’improvvisa impennata tra i 2500 e i 3000 giri rpm, pari a un incremento di velocità di ben 15 Kn (da 25 a 40 Kn), dovuto all’effetto lift sotto la piattaforma tra i due scafi anteriori che, rispetto a quello centrale posteriore, hanno un diedro superiore a 30°.
Le fotografie, fatte durante le prove nelle quali sono stati superati i 40 Kn, rivelano una bassa formazione di treni d’onda e una cospicua massa di aria emulsionata nella zona retrostante i due scafi laterali, il cui effetto di sostentamento è aumentato dai due pattini di contenimento. Il GPB fu allestito anche in una versione Rescue.
Alcuni anni fa, incuriositi e stimolati da una coraggiosa richiesta per lo studio preliminare di un’imbarcazione ferry ultra veloce da immettere su rotte in competizione con le linee aeree regionali, Renato Levi e io decidemmo di proporre la formula del triciclo rovescio che potenzialmente poteva soddisfare questa esigenza. “Cento passeggeri a cento nodi” potevano coprire la distanza da Napoli Mergellina a Palermo Porto (167 miglia) in circa un’ora e quaranta, un servizio door to door che avrebbe dribblato l’aereo nelle tratte terrestri di Capodichino e Punta Raisi.
Il progetto era tecnicamente realizzabile, ma, come per “l’Uccello Padulo”, i costi di studio spaventarono chi era interessato, lasciando in noi l’amara constatazione che il mondo delle costruzioni navali, specialmente nel diporto, viene sempre avvicinato con molta superficialità. E ciò trovò conferma quando riproponemmo l’idea di uno yacht da 100 nodi. Una stimolante provocazione che trovò ampio spazio nella stampa di settore. Ma è proprio vero che il costo di un giocattolo deve sfuggire all’analisi finanziaria?
Positivamente o negativamente, il mondo della nautica da diporto ha evidenziato il fatto che la barca è un oggetto di “status” da esibire ed esporre in banchina. Ciò si ripercuote negativamente anche sul progresso tecnologico dell’oggetto che segue la moda delle sovrastrutture e degli arredamenti interni, anziché i vantaggi che un nuovo tipo di carena, di struttura, di materiale o di propulsione può dare.
Il ricordo di Gino D’Este, e del suo cantiere a Fiumicino che profumava delle essenze dei legni che scolpiva con amore per ristrutturare la mia goletta Saudade, mi fa ritornare al mio primo amore: la vela. Appena finita la guerra, nel 1945, rimisi in mare la mia Lupa, ma tre anni di esposizione alle intemperie non le avevano giovato, così la cedetti in cambio di uno Snipe, un rottame che richiese quasi un anno di lavoro, in un cantierino ove appresi praticamente ciò che D’Este mi avrebbe poi insegnato.
Falchetto, era questo il nome originale dello Snipe (e qui ricordo che non bisogna mai cambiare il nome di una barca di seconda mano!), sostituì egregiamente la vecchia Lupa e ampliò i miei orizzonti di navigatore: quando andai a La Spezia a lavorare alla Stian e poi a S. Margherita, cominciai a navigare veramente in maniera professionale.
Questa opportunità mi fu offerta dai lavori che furono commissionati alla Stian per riclassificare il rating di un vecchio e glorioso Prima Classe Rorc: il Benbow, una barca di 22 mt, nata come me nel 1927, disegnata da R. Clark e costruita a Southampton da Nicholson. Fasciame in teak su ordinate di acciaio galvanizzato. Il nuovo piano velico lo disegnò J. Illynghwort, con un nuovo albero in alluminio di 32 mt.
Dirigevo i lavori di ristrutturazione presso il Cantiere Mingo a Riva Trigoso e la conoscenza di J. Illyngwort, poi trasformatasi in grande amicizia, mi fece scoprire un nuovo mondo… Con il Benbow feci le prime regate d’altura e ne divenni Capitano d’armamento. Dal 1966 in poi, come timoniere, feci con questa grande barca sette regate della Giraglia, due Antibes-Ischia, una Tre Golfi, le invernali di stagione e quelle di trasferimento.
Ogni anno la rimettevo in armamento curandone i piccoli acciacchi che ogni vecchia signora accumula inevitabilmente con l’età. Ma quando all’inizio della stagione di regate entravamo a Tolone, Cannes, Palma de Majorca, la vecchia signora era la più ammirata. È stata una grande e preziosissima esperienza che mi ha permesso di allargare il campo professionale nel settore della vela.
Indirettamente, le esperienze di navigazione a vela influirono nella progettazione del piccolo Finette, del Saudade e di tutte le barche a vela che ho progettato, perché a motore o a vela, l’acqua che lambisce le carene delle barche segue le complesse e comuni regole dell’idrodinamica. Di questo abbiamo potuto avere la conferma nell’Exocetus Volans, ottimo veliero che a motore raggiungeva comodamente i trenta nodi.
Il problema del motorsailer ha sempre affascinato i progettisti generando però barche pessime sia a motore che a vela, ma è più facile far andare a vela un buon motoscafo, che far andare a motore una buona barca a vela. È la teoria dell’inversione dei fattori, ma in questo caso il prodotto cambia!
Così nacque, a Venezia, l’Exocetus Volans, un’elegante e profilata carena Delta di 11 metri, con un grande timone a superficie variabile, una cassa di zavorra che si riempiva o si vuotava automaticamente, due motori AIFO da 240 CV cadauno (che con il loro peso davano stabilità, ma che con le loro eliche di superficie generavano resistenza di appendice alle basse velocità), una deriva retrattile e un generoso piano velico integrato da un bellissimo spinnaker. Di bolina, stringendo il vento a 30°, si tenevano comodamente gli 8 nodi, con una buona stabilità iniziale. A motore, sorpassammo i 32.
Per il piano velico dell’Exocetus fu studiato e sperimentato sui modelli un armamento a Kite Rig. In piena velocità, a motore, abbiamo constatato che i moti di beccheggio, anche in presenza di onde significative, erano smorzati dalla presenza dell’albero che, con la sua “massa” e inerzia, agiva da ammortizzatore cinetico. Ma l’Exocetus funzionava bene sia a motore che a vela.
Qualità più che soddisfacenti per i progettisti, ma estremamente negative per un velista che si domandava che ci stavano a far quei due rumorosi ammassi di ferraglia in sentina; e altrettanto negativa per il motoscafista al quale, quel “palo” lì davanti dava molto fastidio. Una brillante verifica di una teoria, un interessante esperimento, ma fu anche un clamoroso insuccesso commerciale che però ci diede una grande soddisfazione:
Una sera rientrando in cantiere dopo le prove, mentre navigavamo nel canale parallelo al ponte della ferrovia, “sorpassammo” il rapido Venezia-Milano.
Sempre a Venezia progettai e feci costruire per il Cantiere F.lli Marchi di Campalto un piccolo moto catamarano di 5 mt che in larghezza poteva ospitare due cabine a due letti.
Era motorizzato con due stern drive Volvo da 120 CV e il prototipo fu costruito in legno, per ricavarne in seguito gli stampi per la produzione in GRP. Fu esposto al Salone di Genova, ma la successiva scomparsa di Ezio Marchi vanificò il progetto.
Quando la Navaltecnica di Anzio cessò la produzione delle barche disegnate da Levi, parte delle maestranze, insuperabili nella lavorazione del legno lamellare, si riunirono e fondarono la Cosnava con la quale mantenni un buon rapporto di collaborazione per molti anni e nel 1982 feci costruire un motorsailer di 17 mt gemello del Linda varato da Mostes, il Victoria che differiva solamente per i motori che erano Aifo.
A distanza di un anno uno dall’altro, varammo due trawler yacht di 16 mt del tipo Orsa Maggiore, con una carena planante simile a quella della Motomar; con i due motori GM da 400 HP si raggiungevano i 24 nodi, ma in assetto un po’ troppo cabrato, che in seguito fu corretto con una coppia di flaps. Successivamente, fu costruito il cruiser Shatan.
Il piccolo Offshore 990 fu un interessante esperimento che coniugava, nella costruzione in lamellare, il concetto di struttura anulare (Cronos) con quello della struttura longitudinale (SAI Ambrosini). In questa imbarcazione, rimasta allo stadio di prototipo, sperimentammo le trasmissioni a piede poppiero Ototrasm.
Il lavoro alla Stian mi aveva familiarizzato con la progettazione delle grandi barche a vela e nel 1967, su mio progetto, il Cantiere di Mariano Craglietto, a Trieste, realizzò un ketch di 18 metri, l'ORION.
Nello stesso periodo ebbi modo di contattare l’ufficio tecnico della Fincantieri di Monfalcone, al quale sottoposi una mia idea per ringiovanire la linea del loro Bora che, ottima imbarcazione, dava i primi segni di stanchezza commerciale.
Feci un preliminare per uno scafo, sempre in GRP, di 17 mt che chiamai Tramontana, tanto per essere in carattere col vento freddo che in quell’inverno spazzava il cantiere. Credo che il mio progetto giaccia ancor oggi congelato negli archivi della Fincantieri…
A ponente di Genova, stretto tra la ferrovia e la spiaggia, esisteva all’inizio degli anni Settanta il Cantiere Mostes. Dico “esisteva” perché in seguito fu fagocitato dal raccordo autostradale e dalle banchine del porto container che gli preclusero anche l’accesso al mare. Con l’amico Luigi Lu ho realizzato una decina di barche di modelli differenti: cruiser a motore, motorsailer e trawler yacht.
Non posso dire quale di esse mi ha dato le maggiori soddisfazioni professionali, ma credo che il Linda possa essere in pole position. Progettai questo motorsailer di 17 mt su precise indicazioni dell’armatore, che aveva un’ottima esperienza di vela e voleva fare il giro del mondo in assoluta tranquillità e sicurezza, visitando le più belle località navigando a vela o a motore.
Impostammo la chiglia nel 1973 e una sterlina d’oro venne incastrata tra la chiglia e la ruota di prua, a ricordo della “palanca” che in Liguria veniva messa nel minchiotto della chiglia prima di calarci sopra l’albero. Vorrei ricordare la buona e antica usanza dei cantieri italiani di mettere un ramo d’olivo in sommità del dritto di prora. L’ho visto fare anche in Egitto con una foglia di palma e in Brasile con dei rami di Ipè. Sono gesti di fede che stiamo dimenticando, così come dimentichiamo il modo giusto di fare le barche.
Il varo avvenne nel 1974 e, dopo un rodaggio in Sardegna, il Linda partì per il suo lungo viaggio. Conservo tuttora cartoline da Bahia, Rio de Janeiro, Galapagos, Tahiti, Sidney e Bombay. Con i suoi due General Motor da 140 CV cadauno e le sue vele, questa barca ha fatto il giro del mondo e ancora oggi fa del charter nei Caraibi con il nome di Rajada.
Per un amico al quale ai tempi della STIAN avevo già disegnato un piccolo motorsailer in dimensioni da trasporto ferroviario e autostradale (l’amico abitava a Basilea e ci separava il traforo del Gottardo) progettai un Trawler Yacht di 18 mt, il Milù, che nel 1975 fece una lunga campagna charter nei Caraibi prima di rientrare in Italia.
Le possibilità di navigazione d’altura e le doti di grande autonomia di questa imbarcazione “anomala” nella nautica da diporto, aprirono la strada alla serie di Trawler che successivamente progettai per Mostes e per altri cantieri.
Il Trawler è veramente la “barca da crociera” con la quale si può navigare tranquillamente anche di notte e cucinare per gli amici una carbonara senza dover fare acrobazie. Per inciso, ho nominato questo gustoso piatto di spaghetti perché è anche il nome di una vela che su un Trawler, con un genoa o trinchettina, può integrare il motore in una lunga e tranquilla navigazione con, in più, lo smorzamento del rollio.
Mostes costruì una serie di tre piccoli trawler: la serie Orca di 14 mt, uno dei quali negli anni successivi convertì alla vela un famoso navigatore transatlantico in solitario, il Professor Austoni! La conversione non fu un intervento divino, ma un favorevole e gagliardo maestrale che spinse il genoa e la Carbonera del Professore da Crotone a Corfù in una piacevole e silenziosa navigazione di un paio di giorni.
Successivamente, progettai per il cantiere due motorsailer, molto moto e poco sailer, che per la potenza installata, due GM da 200 CV, riuscivano a planare, ma sotto vela erano dei chiodi.
Per Luigi Mostes ho disegnato nel 2003 un grande Staysail Bermuda Schooner di 28 mt che non è stato mai realizzato.