Articolo: Novantanove barche (quarta puntata)
Riproponiamo l'articolo di Franco Harrauer di MARZO 2011 apparso su altomareblu.com. Il link a seguire per visionale l'articolo completo http://www.altomareblu.com/novantanove-barche-quarta-puntata/
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Novantanove barche (quarta puntata) di Franco Harrauer
All’Hellenicon, il vecchio aeroporto di Atene, ebbi il primo sgradevole contatto con questo paese che già conoscevo e che amavo per la sua cultura e per la sua ospitalità. Era il 1969 e al Salone Nautico di quell’anno fui avvicinato dall’esponente di un cantiere greco interessato alla produzione di piccole imbarcazioni veloci. Invitato ad Atene, appena giunto al controllo di polizia, dopo una lughissima fila, il mio passaporto fu osservato, fotocopiato e analizzato così come lo scopo della mia visita. Fu un interrogatorio vero e proprio con evidenti risvolti politici che inevitabilmente riguardavano la mia giovanile partecipazione alla Resistenza italiana nel 1944/45 a loro evidentemente nota.
Era la Grecia dei Colonnelli alla fine degli anni Sessanta. L’intervento del titolare del cantiere mi liberò dopo un paio d’ore con il trattenimento temporaneo del passaporto sino al giorno del mio rientro in Italia.
Dopo un paio di giorni di lavoro conclusi l’accordo, definii i parametri contrattuali e consegnai il progetto preliminare, molto semplice ma interessante per il numero di esemplari da costruire, 100 scafi da 6 mt, con propulsione fuoribordo.
Quando varcai i cancelli di controllo dell’aeroporto per rientrare in Italia, il passaporto mi fu riconsegnato con un vistoso timbro che mi classificava come “individuo di non gradita presenza in Grecia“ e non ebbi più contatti con la Grecia sino alla caduta del regime dei colonnelli, ma un paio di anni dopo ricevetti una foto da Atene con l’immagine di un mio scafo color grigio, con una mitragliera da 12 mm (made in USA) piazzata a prua e impugnata minacciosamente da un soldato con tanto di elmetto (made in USA). Detto per inciso, non fui mai beneficiato dalle royalty che avevo concordato… i colonnelli avevano dirottato la produzione delle imbarcazioni da diporto per la difesa della patria, contro la minaccia di “individui” come il sottoscritto!
Ho vissuto per cinque anni in Egitto lavorando a Suez, Port Said, Aswan, al Cairo con frequenti soggiorni e viaggi di lavoro in USA, Brasile, Spagna e in Italia. Credo che lavorare e vivere in un paese sia l’unico modo di capire un popolo e una cultura. Cultura e civiltà nata migliaia di anni fa in questo crocevia tra Africa, Europa e Asia è conservata nei rapporti di lavoro e vita quotidiana.
A Suez in luglio la temperatura dentro lo scafo di ferro di una grande barca in costruzione era sempre vicino ai 40° e verso le cinque del pomeriggio, quando il canto dei muezzin chiude la giornata di lavoro, il saldatore che seguivo nel lavoro, posava la maschera e sulla lamiera ancora calda si inginocchiava verso la fornace del sole, basso sull’orizzonte e chiuso dalle dune che fiancheggiano il Canale, e mormorava la sua preghiera; poi, con un sorriso, divideva con me un bicchiere di tè amaro e caldissimo.
Ad Aswan, una sera girando per i vicoli della città vecchia, mi giungono all’orecchio note familiari… ma sì, è la marcia trionfale dell’Aida. Dopo un paio di angoli vedo una capra legata fuori da una bottega mal illuminata, seguo la corda che lega il paziente animale e giungo alla mano di un fellah in galabeya che si fa radere seduto su una sgangheratissima sedia. Le note della marcia verdiana escono a tutto volume da un mangianastri giapponese alla luce di una tremolante fiammella a petrolio, al ritmo delle guance che si gonfiano e si sgonfiano… Waw!
Il mento veniva rasato dallo strumento manovrato da un inprobabile barbiere. Il “maestro”, vestito di un camicione dal dubbio candore, sembra dirigere l’orchestra. Un altro cliente, seduto a terra, attende paziente il suo turno e con il suo russare mantiene il tempo della melodia del Cigno di Busseto. Mi allontano fischiettando, come Radames, in pace con Dio e con gli uomini.
L’Egitto turistico, a nord del Cairo sino ad Assiyut e a sud di questa località sino ad Aswan e al confine con il Sudan, è diviso in due. Quando le acque del Nilo sono basse, seppur regolate dallo sbarramento di Aswan, interminabili file di grandi navi da crociera, dirette a sud o a nord, debbono interrompere il loro viaggio, attendere che aumenti il livello del fiume o trasbordare i passeggeri su altre navi in attesa oltre le chiuse, a causa dell’alto pescaggio che non permette loro di entrare nelle chiuse che hanno la soglia minima di 1,60 mt in periodo di magra.
Il problema mi venne sottoposto da un operatore turistico egiziano che incontrai a Roma. Come risolvere il problema date le dimensioni delle chiuse? Era un problema di idrostatica, di contenimento dei volumi e sopratutto di dislocamento. Così abbozzai il disegno di uno “scatolone” a misure di Esna, ma di dislocamento molto controllato e invitato al Cairo, nei giardini del Gezira Sportig Club, conclusi, tra un paio di bicchieri di JB, un interesssante gentleman agreement con il Principe Osama Ab del Hack, accordo che si trasformò, oltre che in solida amicizia, in occasioni di lavoro che poi mi indussero a trasferirmi in Egitto.
In un cantiere in vista delle piramidi, varammo nel 1998 il primo “scatolone” a tre ponti che prese il nome di Queen of Africa seguito poi dal Safari Queen.
Per mantenere l’assetto longitudinale perfettamente orizzontale, e quindi un pescaggio costante di 1,40 mt, che mi permetteva di superare la soglia del bacino, avevo progettato un sistema di travaso verso prua o verso poppa dei serbatoi di carichi liquidi. Quando il Queen of Africa entrò per la prima volta nella chiusa di Esna, galleggiava con 20 cm di acqua sotto la chiglia e Osama mi disse ridendo: “Devi farmi conoscere questo Signor Archimede!”.
Il mio soggiorno in Egitto ha coinciso con una certa internazionalità della mia professione che mi ha portato in Brasile, Nord America, Turchia, Emirati e Iran.
Nel 1999 progettai per un uomo d’affari egiziano un grande catamarano in lega leggera di 30 mt, che fu costruito nella West Coast degli USA. Mi recai un paio di volte a Tacoma, sulla costa del Pacifico, per seguire la costruzione. Sbarcando all’aeroporto di Seattle fui accolto da una pioggia battente che mi accompagnò per tutti i giorni delle mie visite.
Nella progettazione di questo catamarano applicai il concetto dell’anello chiuso sperimentato su Cronos e strutturalmente sui catamarani di Sciallino.
Uno dei fattori determinanti alla conclusione delle trattative per il progetto, fu un particolare del tutto inutile e complicato che però faceva molto “007”.
Nella piattaforma ricavai l’alloggiamento per un Bayliner di 6 metri che scendeva con una rampa di varo nel tunnel tra i due scafi. Tutto molto complicato, ma faceva un grande effetto passare direttamente dal salone al motoscafo, sedersi a bordo e poi, con un radiocomando, scendere dolcemente in mare, mettere in moto e uscire verso prua con lo sguardo alla James Bond perso nel lontano orizzonte…
Tutto perfettamente inutile e complicato in caso di di maretta, ma di grande effetto in porto. L’Alì A fu varato nel 1999 e imbarcato su un cargo che lo mise in mare nella baia di Navarino in Grecia, dove facemmo le prove che, come al solito, rivelarono un eccesso di dislocamento riducendo la velocità dai 25 nodi contrattuali a 20 nodi in codizioni di PC. Ma l’armatore era felice di poter premere il suo radiocomando…
Dopo una sosta al Pireo portammo il catamarano a Hurgada sul Mar Rosso con un piacevole viaggio tra le isole egee e la costa turca, e una sosta Bodrum dove vidi in costruzione una goletta di 30 mt, costruita su mio progetto per un cliente italiano.
In Egitto, a Port Said, nacque Arawa, un grosso motorsailer catamarano di 30 mt, di ferro con scafi double ender asimmetrici speculari. L’anomala configurazione era dovuta a una precisa esigenza dell’armatore che avrebbe usato il catamarano come base per ricerche e documentari nell’oceano Pacifico. Quindi, l’imbarcazione doveva avere grande autonomia e possibilità di spiaggiare per fare carenaggi o piccole riparzioni.
Progettai un tipo di carena con linea di base e con un profilo di chiglia orizzontale, con timone esterno sul dritto di poppa ed elica sulla fiancata interna dello scafo. La mancanza di superfici di deriva mobili mi indusse ad adottare profili asimmetrici speculari che con la loro “portanza”, quando lo scafo sottovento era più immerso di quello sopravvento, mi avrebbero permesso di stringere la bolina.
Con l’elica necessariamente in quella posizione feci istallare, sopra di essa, una pinna orizzontale per impedire l’aspirazione di aria dalla superficie.L’armamento era a goletta staysail con alberi metallici. Arawa fu varato a Porto Said, ma per impegni del cantiere l’allestimento fu seguito a Suez, sempre sul Canale, ma a 130 km di distanza dal Mar Rosso. Pertanto, quando la trasferimmo in Italia, avevamo percorso due volte la straordinaria via d’acqua che, tagliata nel deserto, divide l’Africa dall’Asia.
Con l’amico Osama e il giovane ingegnere Hussein Mesharafa avevamo organizzato uno studio tecnico per approfittare della nascente industria navale egiziana. Con la IEGIE (Italian Egyptian Group for Industrial Engineering) realizzai alcuni interessanti progetti nel settore delle imbarcazioni da lavoro.
Il governo egiziano aveva finanziaio un progetto pilota per rinnovare e modernizzare la flotta di pescherecci molto attiva nel Mar Rosso e ad Alessandria.
Progettai un Fishing Cat di 11.70 mt che per la configurazione e le attrezzature poteva attuare molti metodi di pesca (circuizione, long line, traina) e per le sue caratteristiche poteva elevare la produttività nonostante un ridotto equipaggio (5 pescatori), la velocità fino a 16 nodi e l’economia di esercizio.
Il Cat con carene tipo slender in GRP aveva due motori idraulici per la propulsione e i servizi – winch, gru, frigoriferi - erano alimentati idraulicamente da un unico motore diesel da 200 Kw, sistemato sul ponte. L’obiezione degli armatori, alla presentazione del progetto fu: gli altri pescatori che nornalmente fanno parte dell’equipaggio, dove li mettiamo?
Il progetto del Fishing cat diede origine a un interessante piccolo Yacht Cat che rimase allo stadio di proposta. Un catamarano che invece vide la sua realizzazione in lega leggera fu un pattugliatore litoraneo che riprendeva il grande cat proposto alla SAI Ambrosini, il GPC (General Purpose Catamaran) di 18 mt, che aveva una velocità di 25 nodi e poteva mettere a terra un veicolo leggero 4×4. Il prototipo fu valutato dall’Esercito egiziano ma successivamente fu attrezzato come antincendio.
Prima della mia partenza per il Brasile completai il progetto per una motonave di 45 mt per uso turistico, comissionatomi da una società turistica saudita, e quello per un’imbarcazione scuola per conto dell’Accademia navale di Alessandria.
Mi recai per la prima volta in Brasile nel 1982. Avevo conosciuto Amerigo Santarelli a Roma quando era capo dell’equipe di caccia subacquea brasiliana che partecipava ai campionati mondiali a Ustica. Amerigo mi aveva espresso il desiderio di cominciare a costruire barche da diporto a Rio per il mercato brasiliano.
Gli proposi il Bronte Alfamarine e con Marcello Fazioli, dopo una visita in cantiere, una prova in mare. Durante un paio di cene stipulammo l’accordo per la produzione in Brasile con la mia assistenza. Nel giro di due mesi le forme di produzione arrivarono a Rio ed io con loro. Divenni così un pendolare del Sud Atlantico e mi resi conto che il mercato brasiliano era molto promettente.
Dopo il Bronte, che fu prodotto in circa 10 esemplari, progettai per la Cobra i cruiser flying bridge Ibiza 40 e Capri 35 costruiti in circa 50 esemplari e ancora in produzione. Il Corsica di 55ft era un open fast cruiser con due MTU da 900 CV ed eliche di superficie LDU, con una nuova idea del pozzetto ove il pilota era in posizione arretrata rispetto agli ospiti e non isolato com’è normalmente.
Questa disposizione fa parte della filosofia progettuale che io chiamo socialy correct, secondo la quale anche nella disposizione degli interni gli ospiti debbono godere di cabine uguali a quella dell’armatore. Questo tipo di disposizione l’adottai anche per il flying bridge Ibiza 40. Amerigo aveva comprato un appezzamento di terreno in una piccola isola dell’arcipelago di Angra, la Cajera, per costruirvi una casa: per raggiungerla comodamente da Rio, quale mezzo più comodo e veloce di un piccolo idrovolante? Ho perso un amico mentre volava verso il suo sogno.
Durante uno dei miei soggiorni in Brasile, nella Baia di Rio ho fatto una curiosa esperienza. Stavo provando uno scafo veloce a V profondo, con angolo di diedro allo specchio di poppa di 24°, su una base misurata che andava dalla sede dello Yacht Club nell’insenatura del Botafogo sino alla baia di Charita verso Niteroj. Il mare era calmo, ma ogni volta che passavo dinanzi alla bocca della baia, il forte vento proveniente dall’Atlantico mi investiva di fianco, portandomi fuori rotta sottovento.
Correggevo con il timone per riportarmi in rotta, ma ogni volta che rifacevo il percorso notavo che stranamente lo scafo, investito dal vento laterale, sbandava sopravento, cioé verso la direzione dalla quale soffiava,e più coreggevo la rotta, più lo sbandamento si accentuava. Non riuscivo a darmi pace, ma ragionando poi a terra capii che era la mia correzione a provocare lo sbandamento. Infatti, il vento mi faceva andare fuori rotta investendo la parte laterale emersa dello scafo e il timone, essendo sotto l’asse di rollio, ne provocava la rotazione.
Come Renato, ne feci un disegno per spiegare ad Amerigo la mia osservazione. Mentre pranzavamo allo Yacht Club, decidemmo che era meglio montare dei flap e imparare a usarli al posto del timone. Ero in partenza per rientrare in Italia e fu l’ultima volta che vidi Amerigo!
La Cobra poi fu guidata dal figlio Marco e mettemmo in produzione il Linx 35, un velocissimo open cruiser da 40 Knsul quale incorporai le eliche di superficie nella struttura in GRP dello specchio di poppa, e piccoli Cobracat con motore fuoribordo.
Con la costituzione della Mistral Arpoadur affrontammo il nuovo ma promettente mercato delle barche da lavoro. Come Cobra avevamo già costruito delle imbarcazioni per pattugliamento litoraneo per il Governo angolano, ma la nuova struttura commerciale in collaborazione con la Rodriquez allestì un cantiere a Rio dove varammo nel giro di un giorno la flotta dei grandi e veloci traghetti della Baia.
Tra le strane e inusuali imbacazioni che progetto e propongo, ricordo un catamarano del servizio antincendio e un battello fluviale turistico per l’Amazzonia che per la sua architettura retrò fu ispirato dalla piccola nave fluviale del film Fitzcarraldo, che portava la voce di Caruso tra gli indios della foresta.
I numerosi progetti di catamarani che sviluppai nelle infinite versioni alle quali questa architettura si presta, si materializzarono nell’interesse della Petrobras, il colosso petrolifero brasiliano.
Per questa azienda, come crew boat e supply wessel, disegnai un catamarano con scafi Slender per velocità massima di 20 nodi, privileggiando i volumi prodieri perché sapevo che le condizioni di impiego erano in mare aperto.
Per la forma di stratificazione, la lunghezza era compresa tra i 20 e i 25 mt ft, in modo che con la stessa forma si potessero stampare altri esemplari.
Il modello venne provato al carro dinamometrico della vasca dell’Università di Trieste. La propulsione era a idrogetti volumetrici. Lo Jupiter (125) fu varato nel nostro nuovo cantiere di Angra il 25 aprile 2009 con la bandiera italiana a riva.
Cosa farò da grande è la domanda che ogni bambino, prima o poi, si pone: il pompiere? Il calciatore? L’astronauta? L’esploratore in Africa? Sogni segreti che non si avvereranno perché il pompiere diverrà un alto funzionario, il calciatore un ragioniere, l’astronauta si ritroverà dietro una scivania. Non ricordo cosa desiderassi io per il mio futuro, ma era certo qualcosa legata al mare, all’acqua… Forse sono un idraulico mancato…
Queste riflessioni mi accompagnarono durante una traversata dell’Adriatico verso la Dalmazia. Ero a prua di un mio cruiser e osservavo il gioco di due creature: un gabbiano e un delfino. Sul mare tanquillo, al tramonto, il gabbiano al mio fianco planava seguendo il profilo delle onde, con pochi movimenti delle ali. Il delfino precedeva la mia prua, appena sotto la superficie trasparente, con piccoli movimenti delle pinne pettorali. Pochi movimenti, poca energia per la mia stessa velocità. Le due creature erano sopra e sotto la superficie che io a 25 nodi fendevo con i miei 1000 cavalli. Sopra e sotto…
A questo punto emerse l’idraulico mancato con l’aggravante del pilota d’aereo. Sotto, a parità di dislocamento e di potenza propulsiva, un corpo completamente sommerso può sviluppare una velocità nettamente superiore a quella ottenibile in superficie. L’idea di uno yacht sottomarino, in linea di massima, è realizzabile tecnicamente, ma un amico, vecchio comandante di sommergibili durante l’ultima guerra, mi aveva detto di essere seriamente preoccupato al pensiero che un ospite potesse aprire un oblò per ammirare meglio il panorama…
Per inciso: è interessante considerare la notizia che negli Stati Uniti il consorzio DARPA (Defence Advanced Research Projects Agency), formato dalla Grumman Dynamics Electric Boat, sta realizzando un dimostratore DSST (Demonstration Superfast Supercavitating Transport) da 60 tonn, capace di velocità subacquea in regime di supercavitazione, dell’ordine dei 50 mt/sec (300 Kh / h). Il mezzo, completamente sommerso, quindi senza generare resistenza d’onda, può raggiungere la velocità indicata senza la resistenza di attrito (superficie bagnata), essendo all’interno di una bolla di aria o di gas prodotta dalla propria cavitazione.
Quanto al sopra, l’aeroplano e di conseguenza l’idrovolante è stato già da tempo inventato, ma l’effetto superficie o ground effect che ha permesso ai russi di realizzare gli Ekranoplani che con 110 tonn di dislocamento sfiorano la superficie marina a 300 K/h, può essere una grossa tentazione per un progettista navale o della nautica da diporto. Ma quando avevo ipotizzato l’Uccello Padulo i tempi non erano maturi e il looping che un ecranoplano russo ha fatto dopo aver perso il controllo di quota non è un’acrobazia gradita ai diportisti… a loro basta e avanza lo spin out.
Non sono le idee a mancare, mancano i quattrini, e quando con Renato abbiamo ipotizzato ed esplorato il tema “uno yacht da cento nodi”, una delle varianti avanzate prevedeva proprio una specie di padulo da 50 tonn. Certo è che i mille KW con i quali, navigando verso la Dalmazia, sconvolgendo le acque, in gara con quelle due creature, non erano il migliore degli impieghi. Guardando alla scia a poppa, mi sembrava di aver progettato una macchina lavabiancheria… una wave machine.
Avevo spesso notato e cercato di minimizzare la tendenza di scafi veloci a delfinare, tipica manifestazione di una carena ad liberarsi di un elemento che ne limiti la velocità. Lo scafo a forte diedro è sostenuto dalla piccola superficie di carena sulla quale grava tutto il peso dell’imbarcazione con scarsa stabilità trasversale. È possibile dividere longitudinalmente in due questa superficie e creare un doppio redan o gradino, ma la scarsa stabilità trasversale permane. Oppure dividere in due lo scafo e creare un catamarano.
A queste velocità sarebbe meglio ragionare in termini di aerodinamica e non di idrodinamica e tentare di far decollare la barca per scaricare quella piccola superficie e lasciare in acqua solo il propulsore e gli organi di governo. Ma con un centro di sostentamento puntiforme oppure a doppio redan, come risolvere i problemi di stabilità sui due assi? Il tavolino a tre gambe che non ha bisogno di zeppa per star fermo, ci indica la configurazione successiva al catamarano, cioè il triciclo rovescio che offre il vantaggio di una grande superficie di sostentamento aerodinamico tra i due scafi anteriori (effetto RAM).
A questo punto, se la potenza propulsiva è adeguata al dislocamento, avremo un carico alare sufficiente al decollo e il mantenimento della quota in effetto suolo (ground effect). Va da sé che la piattaforma tra i due scafi dovrà avere un profilo alare tale da aumentare la portanza con la superficie superiore e le superfici mobili di governo, per il mantenimento della quota di volo, mentre la stabilità di rotta e le virate dovranno essere assicurate dalla spinta vettoriale del propulsore immerso e da adeguate superfici aerodinamiche anteriori di deriva.
Il mantenimento della quota di volo potrebbe essere affidato a una superficie anteriore fissa, del tipo canard con incidenza superiore a quella della piattaforma, in modo che, se va in stallo anticipato, ristabilisca l’equilibrio.
Ma prevedendo alte velocità, sarebbe più opportuno che la rapidità di reazione fosse affidata a un sensore elettronico che, se fosse stato disponibile quaranta anni fà, avrebbe permesso all’Uccello Padulo di volare e, oggi, probabilmente potremmo andare da Napoli a Palermo in meno di un’ora, door to door, dribblando Capodichino e Punta Raisi.
(continua)